Sull’inatteso e il disarmo dell’arte.

 

E’ possibile sfuggire al giudizio soggettivo?

Amo leggere Heidegger quando descrive il momento dell’incontro con l’opera d’arte, evento che segna l’inizio stesso di un “mondo storico” e quindi, il punto d’avvio di una sicura metamorfosi, di una trasformazione dei rapporti ordinari con il mondo e la realtà che ci circonda nel suo insieme. Scopriamo allora con stupefazione, senza aver avuto mai preavviso dall’arte, che siamo necessariamente impreparati ad affrontare il nuovo obiettivamente. Il mostrarsi dell’evento inatteso di una rivelazione “verità” si manifesta come “evento storico” in quanto l’artista non è l’origine, non è il creatore, secondo Heidegger è semmai il “pastore dell’essere”. Nell’inatteso, questo evento di trasformazione anticipa il nostro gusto e la nostra capacità di dominare il giudizio. Questo momento si concretizza come evento pregno di rifiuto/incanto.

Guardiamoci dal giudizio.

Sempre Martin Heidegger, in una sua Lettera del 1945 scriveva “…Proprio quando si caratterizza qualcosa come “valore”, ciò che è così valutato viene privato della sua dignità. Ciò significa che con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato viene ammesso solo come oggetto della stima umana. (…) Ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare. Lo strano sforzo per dimostrare l’oggettività dei valori non sa quello che fa”.

Il disarmo dell’arte

Pongo a questo punto la mia questione dopo aver fatto queste premesse, viaggiando tra l’impossibilità di oggettivare un giudizio e l’incanto per lo sconosciuto. Rimango sempre un po’ stordito da quante espressioni artistiche oggi si prendono gioco dell’arte comparendoci davanti agli occhi ed esaurendosi immediatamente dopo aver consumato l’inatteso.

Cosa succede allora? Perché i messaggi non durano tanto neppure nella noiosa serialità delle nuove produzioni artistiche? Quando arrivano sono fluttuanti e mancanti di fondamenta solide dove poter risalire il sentiero percorso dall’artista.

Modificate da un secolo le chiavi di riconoscimento “qualitative” dell’opera d’arte, la difficoltà nel “riconoscere” un lavoro artistico autentico non si porrebbe più, al massimo risiederebbe solo nel riconoscere l’artista quale pastore dell’essere! Eppure l’arte che ancora desta grosse credenziali di autenticità rimane quella in cui l’evento storico e comunicativo viene rimandato altrove fuori dall’opera stessa (come metafora e specchio “di”). Nel 2002 appuntavo questo concetto che riporto, e che mi pare essere ancora degno di riflessione: “[…] E’ necessario raggiungere un punto distante da se per comunicare, poco distante da se per rimanere in possibilità di rilancio, fuori da se. L’opera deve parlare fuori dal suo corpo, non su se stessa, può rimandare altrove per ripensare nei luoghi di origine la sua deposizione il suo tramite interlocutore. I messaggi plasmati sul corpo dell’opera rimangono in autoriflessione, il corpo del significante rimandato altrove rimane sempre attivo. E’ fuori l’opera che si comunica non su di essa, e al centro tra noi ed essa che avviene il punto di incontro, né su di essa né sui pensieri. E’ poco distante dall’opera l’azione primaria, la leva che porta il messaggio più acuto in fila gli infiniti restanti. L’opera può pensare tutto tranne che se stessa, l’opera d’arte è viva se porta il messaggio fuori da se stessa, e non al suo interno. La nostra comunicazione diventa tale se portata fuori da noi, pertanto se lasciata in sosta psichica rimane pensiero , rimurginazione, riflessione. E’ nel punto d’incontro tra chi domanda ed essa  che proietta altrove la sua risposta. Può essere scena aperta su di una realtà  che usa l’artista come tramite, come mezzo per essere rivelata, un’ opera come risultato di una possibilità di rappresentazione nell’infinito molteplice rimane affascinante ma non comunicativa, l’opera che intendo non vive per se, non vuole essere  spia, non vuole morire di mal di testa. […]

E’ possibile sfuggire al giudizio soggettivo?
Quanti “pastori dell’essere” e quanto “gregge” muovono oggi il mondo dell’arte?

0 thoughts on “Sull’inatteso e il disarmo dell’arte.

  1. Mi trasferii fuori città anni fa.
    Una casa in campagna ha bisogno di un cane che le faccia da guardia.
    I cani spesso scappano.
    Sistematicamente ritornano.
    Aspettai a lungo,del mio,il suo ritorno.
    Vana l’attesa.
    Un giorno,alla soglia,si presento’ una pecora.
    Probabilmente smarritasi dal gregge.
    Le chiesi se,lungo il tragitto che la portava fino a me,avesse visto un cane che somigliasse al mio.
    Mi rispose : Bau! Bau!
    Fu in quel preciso istante che capii di aver smarrito la via e che il mio cane era scappato per venirmi a cercare.
    Riportarmi a casa.
    Non mi ritrovo’.
    Come fanno i cani, sistematicamente mi avviai al ritorno.
    Ritrovata la strada,alla soglia di casa,mi si presento’ nuovamente la pecora che mi disse d’aver visto un cane che l’aveva mangiata.
    Le dissi: Bau!Bau!
    Mi rispose: Non scappero’ più!
    Fu cosi’ che il cane ritrovo’ il gregge ,la pecora ritorno’ a casa,ed io continuo a vivere in campagna.

    S&S * * *

  2. Sul tuo sito ho letto questa frase:
    E’ ovvio rimanere sgomenti dinanzi all’arte per chi la fruisce e l’adopera, perché l’artista vede una strada percorribile e la vive, chi ne fruisce la vede percorsa, almeno in parte fino a ciò che ha davanti.

    Credo che da solo tu abbia definito che nessuno possa essere un pastore quando mostra la strada -percorsa- e non -quella da percorrere-, nè tantomeno potrebbe ESSERE il pastore di se stesso in quanto percorre strade al presente e non al passato.

    Il “valore” (nel senso più aulico del termine) sotto il peso del tempo si sgretola e resta fermo, diventa parte del passato, il segno del ricordo.

    Nessun artista dovrebbe porsi come obiettivo il raggiungimento della lettura universale e del valore ad ogni costo. Sarebbe marketing (sotto ogni profilo).

  3. Il mio discorso sulla “strada percorsa” dall’artista, è riferito al momento che precede l’azione di catalisi dell’opera. Quel periodo temporale è, non solo variabile in tutte le sue direzioni, quanto inevitabilmente irrecuperabile al fruitore dell’opera, il quale vede solo un punto di arrivo. Ma l’operato risiede in “quel tempo” e in “quello spazio” precedente all’opera, è quello il valore che rimane “sempre vivo” e va recuperato nel lavoro di un artista. La strada percorsa ci ridona costantemente un valore culturale ineguagliabile e ci darebbe garanzia di continuità storica ed evolutiva dell’arte. D’altra parte l’opera d’arte contemporanea si è da tempo liberata della necessaria presenza operativa dell’autore. L’arte viaggia soprattutto in questa direzione, e cioè nella realizzazione delegata ad altri dell’operato proprio perché l’opera precede il prodotto quale scultura, quadro istallazione che sia.

    Riguardo al concetto di “pastore dell’anima” è il contrario di quanto hai scritto e dice Heidegger. In pratica già Heidegger getterebbe le basi della possibilità di essere tutti “tramite” o “mezzo” attraverso il quale l’arte si compie e detta la sua veirtà. Il mio intervento è appositamente diretto in questa direzione, e cioè, se sia proprio questo l’inizio di quel processo di trasformazione dall’idea di artista come “entità/ tramite” ad artista come “entità/verità”. Sicuramente ognuno di noi è portatore di verità, ma allora chiunque può fare arte? Questa è una deduzione logica, ma non pratica.
    Anche se i ruoli nella società sono in continuo cambiamento, il ruolo dell’artista che più ci convince dalla storia passata al contemporaneo non è quello di poter raccontare la propria verità/visione, ma quello di portare avanti una logica comunicativa che preceda sempre il tempo.
    Credo che l’artista sia anche il pastore di se stesso come “uomo” perchè non percorre strade al presente ma sempre nel futuro. L’artista è sempre più avanti del tempo.

  4. Innanzitutto mi scuso se sono così ruvido nell’affrontare la questione, forse grossolano, ma ho un lessico attinente più ad una condizione concernente (e forse soltanto) alla “fruizione” e non alla “produzione” e/o l’edulcorazione di un concetto difficile come l’arte.

    Onestamente da semplice “visitatore di mostre” non ho mai pensato che l’artista seguisse pedissequamente una logica comunicativa. Ho sempre interpretato il prodotto come “effetto soggettivo” del quale poco interessava all’artista il fatto che fosse attinente o meno alla sua personale verità.

    Una sorta di “condivisione” che l’artista permetteva facendomi accedere alla sua produzione.
    Una concessione dall’alto al basso.
    In pratica propendevo e credevo che la più popolare interpretazione del ruolo d’artista “moderno” fosse quella di un individuo capace di rappresentare la propria visione attraverso forme comunicative adatte alla sua capacità/sensibilità, più che attento alla mia capacità di lettura o per esteso alla capacità interpretativa della maggioranza.
    Ho sempre considerato molti artisti “difficili per scelta” più che “semplici al fine di comunicare”.
    Proprio quell’artista che, considerandosi teso al futuro crede di percorrerlo anziché essere cosciente di supporre la sua visione.
    Sono felice che qualcuno del quale potrò visitare una mostra, si preoccupi più dell’esegesi della sua verità, anziché del mero “buttare giù l’idea” e darla in pasto ai fruitori.
    L’artista non deve dipingere quel che vede, ma cio’ che sarà visto.

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