L’opera d’arte fino alla realtà virtuale

Il corpo, la fissità e il sospeso dell’opera fino alla realtà virtuale.

E’ una presunzione tutta degli artisti quella di pensare di vivere spazi autonomi, diversi ed esclusivi, eppure tutti gli uomini vivono spazi e realtà talmente differenti da essere saldamente sovrapposti uno all’altro in un’unica, densa realtà condivisa. Questa stratificazione della realtà su piani diversi o simili, sembra rendere oggi ricca la condivisione ma solo apparentemente.

I miei ultimi studi sulla realtà virtuale e le sue applicazioni legate all’arte, mi portano a meditare su considerazioni che annoto quotidianamente. Mi procurano suggestioni che vengono da lontano. Come un filo unico si avvolge la storia davanti agli occhi nel vedere realizzare il sogno di ogni artista, pittore, scultore, architetto; poter realmente camminare, muoversi all’interno di una propria opera.

E’ un filo lungo della storia quello che s’avvolge, di tutti i tentativi  di portare fuori dalla virtualità della propria mente la propria visionarietà. Dalla bidimensionalità delle raffigurazioni arcaiche, egizie, ai primi studi empirici giotteschi, passando per gli studi prospettici scientifici di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Mantegna, Leonardo,  fino ai grandi Carracci immersi nei loro profondissimi cieli, alle camere ottiche di Canaletto e a tutti gli altri artisti che hanno avuto il coraggio di sfondare i limiti dell’opera fisica e aprire spazi immaginari mai percorsi precedentemente.

Potremmo fare centinaia di nomi, ma al di là di tutte le rappresentazioni, mondi espressi come nelle avanguardie dei primi del novecento, pochi sono riusciti a muoversi nel quadro come fa Jackson Pollock negli anni cinquanta, lo fa come registrazione di sé più complessa, affermazione fisica della propria esistenza nel mondo.

In fondo è proprio questo il tentativo ultimo e costante di ogni artista, poter affermare la propria esistenza, il proprio passaggio nel mondo,  sconfiggere la morte nell’istante catturato per sempre dalla propria opera. Con Pollock arriva solo uno dei tanti momenti della storia dell’arte in cui ha inizio una virtualità spaziale dove sperimentare una nuova immanenza tutta fisica. Non è più uno spazio illusorio su un campo bidimensionale né quello avanzatissimo aperto sull’ignoto, sul vuoto spaziale di Fontana,  su di un concetto,  Pollock riesce a trovare una registrazione dei movimenti che la pittura concede alla storia cadendo sulla tela posta sul pavimento. Ancora una volta un artista reinventa la pittura.

Successivamente gli artisti hanno lasciato che l’arte prendesse una strada sempre più autoreferenziale, quasi autonoma, come se essi stessi si mettessero da parte per sempre ad assistere al miracolo autonomo della creatività, come se non gli appartenesse più, come se l’arte avesse veramente un corpo ed un’entità sacra isolata dagli uomini. Per questo, probabilmente, l’arte è sempre più lontana dalla nostra comprensione?

Un’arte solo da fruire, da vivere come esperienza. Non c’è più nulla da capire, nulla da esprimere, comunicare.

L’idea di un’opera che rappresenti solo se stessa oggi inizia a cedere sempre di più sotto il suo stesso vuoto.

Certamente dal postmoderno in poi, stratificazioni di forme e oggetti più o meno ready made non hanno più imitato il mondo da noi conosciuto, ma l’hanno assorbito, fagocitato fino ad annullarlo completamente, creato un nuovo mondo in una virtualità a noi sconosciuta fatta di forme, accostamenti, stratificazioni bizzarre a volte goffe e ridicole. La difficoltà maggiore di comprendere l’arte di fine secolo scorso fino a quella a noi contemporanea è quella di vedere opere che non dialogano più con la nostra realtàbensì sembrano scarti, refusi di una creatività oramai che non trova più interlocutori e neppure terreno ove farsi eterna. Non è un caso allora che le parole più usate dai curatori nell’arte contemporanea riferite alle opere sono “dialoga bene con il luogo“, è “creato per il luogo“, “sono lavori site specific“.

L’attenzione sembra non essere più legata al soggetto dell’opera ma proprio al luogo, realizzare opere che si integrino con il territorio/spazio espositivo, che possano affermarsi in uno spazio condiviso, come ente autonomo e in autoriflessione. Ma in quale realtà? Di chi? visto che i fruitori non hanno altro ruolo che non sia quello voyeuristico, visitatori, collezionisti di esperienze.

[…]

gr

 

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